Concordato con continuità aziendale incompatibile con l'affitto (Corte d'Appello, Firenze - Sentenza 05/04/2017).
L’ammissibilità
dell’affitto d’azienda nell’ambito del concordato preventivo con continuità
aziendale è oggetto di un contrasto interpretativo consolidatosi in due filoni
interpretativi.
Secondo i
fautori della concezione soggettiva, l’affitto d’azienda non è compatibile con
il concordato preventivo in continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall.
Da un punto
di vista letterale, il legislatore all’art.
186 bis non cita tra le circostanze che ammettono la continuità
imprenditoriale l’affitto d’azienda. Il concordato con continuità aziendale,
inoltre, presuppone l’assunzione del rischio d’impresa in capo ai creditori;
rischio del tutto assente nella fattispecie dell’affitto in quanto colui che
affitta il complesso aziendale percepisce unicamente canoni periodici. Infine,
l’affitto d’azienda non sarebbe ammissibile in tale peculiare fattispecie
concordataria, in quanto l’attestazione dei costi e dei ricavi attesi dalla
prosecuzione dell’attività implicherebbe che il soddisfacimento dei creditori
avvenga attraverso i profitti generati dall’azienda ceduta.
Secondo una
differente concezione oggettiva, invece, l’affitto d’azienda preordinato alla
successiva compravendita è compatibile con il concordato con continuità
aziendale ex art. 186-bis l.fall.
Invero,
nell’ambito del procedimento di concordato con continuità, ciò che conta è
l’oggettiva prosecuzione dell’attività aziendale, indipendentemente se essa
faccia capo direttamente all’imprenditore o indirettamente a un terzo. L’affitto
d’azienda va inquadrato nella sua funzionalità rispetto alla futura
alienazione, in quanto strumento finalizzato a evitare la perdita di
funzionalità del complesso aziendale e dei suoi valori economici.
Tale assunto
sarebbe corroborato dalla natura funzionale dell’affitto rispetto alla futura
alienazione, in quanto strumento di transito finalizzato a evitare la perdita
di funzionalità del complesso aziendale e dei suoi valori economici.
In relazione
al caso di specie, la Corte di appello di Firenze ha aderito all’impostazione
giurisprudenziale soggettiva alla luce delle peculiari circostanze del caso
sottoposto alla sua attenzione.
Più nello
specifico, una S.r.l. aveva presentato al Tribunale di Firenze una proposta
concordataria calibrata sulla cessione di due immobili destinati ad
albergo-ristorante. Al momento della presentazione della domanda, il complesso
aziendale era già gestito in affitto da una terza società nell’ambito di
un contratto destinato a concludersi nel 2021, in forza di pregresse scelte
imprenditoriali del debitore.
Il giudice
di primo grado qualificava detta proposta come concordato “misto” con una
componente liquidatoria e una componente di continuità indiretta, in forza del
preesistente contratto di affitto.
Dichiarato
il fallimento in primo grado, la società - sostenendo la natura esclusivamente
liquidatoria, in luogo della natura mista, della proposta concordataria - agiva
davanti alla Corte di appello che ne accoglieva le doglianze.
I giudici
ritenevano che non fosse condivisibile la natura mista della proposta
concordataria, sulla base della mera presunzione del collegamento funzionale
dell’affitto d’azienda con la futura cessione.
Ciò in
quanto sebbene nel ricorso non fosse esplicitamente menzionata la cessazione
dell’attività alberghiera e di ristorazione, quest’ultima era chiaramente
deducibile dalla ratio e dal contenuto della proposta in cui si
esplicitava la necessità di liquidare gli assets aziendali.
Aderendo
alle coordinate della concezione soggettiva, la Corte riteneva che un
concordato preventivo non potesse qualificarsi come proposto ai sensi dell’art.
186-bis l.fall. qualora fosse in corso un contratto di affitto di azienda,
soprattutto considerando che quest’ultimo era riferibile a una scelta
imprenditoriale antecedente alla procedura concordataria.
Invero, tale
conclusione sarebbe corroborata non solo dal dato testuale dell’art. 186-bis l. fall. non
allude alla fattispecie dell’affitto d’azienda ma, altresì, dall’impossibilità
di individuare la garanzia del soddisfacimento del ceto creditorio attraverso i
profitti generati dall’impresa ceduta.
Una
differente scelta interpretativa - secondo i giudici - giungerebbe al
risultato di sminuire la portata dell’art.
186-bis comma 2 lett. a) nella parte in cui prescrive l’obbligo di
indicare i costi e i ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività.
Rif.: Altalex