Già a seguito delle prime sentenze del 1999 il legislatore ha tentato di arginare l’enorme numero di contenziosi che si stava aprendo tra correntisti ed Istituti di Credito con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 c.d. “Decreto salva banche” art. 25 comma 2, con il quale veniva modificato l’art. 120 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) introducendo al secondo comma la legittimità della capitalizzazione periodica degli interessi ed il principio della eguale cadenza di capitalizzazione degli interessi sui saldi attivi e passivi. Veniva demandato al C.I.C.R. Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio la possibilità di introdurre la capitalizzazione trimestrale (o con diversa periodicità) degli interessi debitori a condizione di reciprocità, cioè a condizione che anche gli interessi attivi (in favore del cliente) venissero capitalizzati con pari periodicità, ossia trimestralmente. Il C.I.C.R. con Delibera del 09/02/2000 prevedeva all’articolo 2: ”Nel conto corrente l'accredito e l'addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità. Nell'ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica”. Contestualmente il legislatore tentava di introdurre, con l’art. 25 comma 3, decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 una sanatoria per il periodo pregresso posto che prevedeva che “le clausole relative alla 2 Da ultimo Cassazione Sezioni Unite 24418/2010.9 produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere fatta valere solo dai clienti”. Il C.I.C.R. dava conseguentemente seguito a tale previsione con l’art. 7 della citata Delibera 09/02/2000: “Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio. Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30 giugno 2000, possono provvedere all'adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile e, comunque, entro il 31 dicembre 2000. Nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela. Nel conto corrente l'accredito e l'addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti”. Avverso tale ultima previsione è però intervenuta la giurisprudenza della Corte Costituzionale con la Sentenza 425 del 17 ottobre del 2000 con la quale venne ritenuto incostituzionale il 3° comma dell’art. 25 nella parte in cui prevedeva che i contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della Delibera C.I.C.R. fossero validi e pertanto veniva confermato il principio della inapplicabilità dello ius superveniens (diritto sopravvenuto) ai rapporti instaurati precedentemente.10 Pertanto, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori contenute nei contratti di epoca anteriore all’indicata entrata in vigore della Delibera C.I.C.R. 9.2.2000 erano e restano radicalmente nulle, con la conseguenza che il correntista potrà comunque agire per la ripetizione di tutte le somme illegittimamente pretese dalle banche.
11/05/21
29/04/21
In anatocismo e consenso scritto del cliente
La Corte di Cassazione ha chiarito che, se prima dell’entrata in vigore della Delibera Cicr, ovvero prima del 9 febbraio 2000, “ la clausola di capitalizzazione degli interessi è affetta da nullità, sembra difficile negare che l'adeguamento alle disposizioni della delibera Cicr delle condizioni in materia figuranti nei contratti già in essere (...) non determini un peggioramento delle condizioni contrattuali (...) con la conseguenza che, non essendo stata approvata, l'operata variazione contrattuale (...) è inefficace nei suoi confronti e non impedisce la nullità di dispiegare ogni suo più ampio effetto con riguardo all'intera durata del rapporto."
Significa in maniera inequivocabile che la modifica introdotta deve considerarsi peggiorativa per il correntista, visto che introduce un regime di capitalizzazione dell’interesse a debito prima assente: ne consegue la necessità di acquisire il consenso scritto da parte del cliente, pena la “nullità della clausola”.
Ancora la Corte di Cassazione con Ordinanza del 12 marzo 2020, n.7105 ha affermato che la sostituzione della reciproca capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi e passivi, all'assenza di capitalizzazione per effetto della declaratoria di nullità della clausola contrattuale anatocistica, comporta un peggioramento delle condizioni in precedenza applicate al conto corrente, sicché è necessario un nuovo accordo espresso fra la banca e il cliente.
Sembra pacifico l’indirizzo della Suprema Corte: il nuovo regime di capitalizzazione in adeguamento alla Delibera Cicr del febbraio 2000 rappresenta un evidente peggioramento delle condizioni contrattuali precedentemente applicate al conto corrente; perciò, proprio in applicazione dell’articolo 7, comma 3, della delibera sarebbe stato necessario un nuovo accordo espresso tra le parti, non essendo ammissibile un adeguamento unilaterale.
13/05/20
Decreto-Legge convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2 (in SO n.14, relativo alla G.U. 28/01/2009, n.22).
LEGGE DI CONVERSIONE 28/1/2008 N.2 AI FINI DELL'ANATOCISMO BANCARIO
04/05/20
Secondo la Suprema Corte il "correntista" deve produrre il contratto
Tale principio trova applicazione, spiega la Corte, anche ove si faccia questione dell’obbligazione restitutoria dipendente dalla (asserita) nullità di singole clausole contrattuali: infatti, chi allega di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte e proponga nei confronti del accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma pagata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta (Cass. 14 maggio 2012, n. 7501).
Ciò implica che, assunta l’esistenza del contratto scritto di conto corrente, l’attore in ripetizione che alleghi, come nella vertenza in esame, la mancata valida pattuizione, in esso, dell’interesse debitore, sia onerato di dar prova dell’assenza della causa debendi attraverso la produzione in giudizio del documento contrattuale: è attraverso tale scritto, infatti, che il correntista dimostra la mancanza, nel contratto, della pattuizione degli interessi o la nullità di essa.
Erra dunque, la società attrice, allorquando pretende di riversare l’onere della prova relativa alla documentazione del contratto sulla banca.
Irrilevante altresì, a parere della Suprema Corte, la deduzione svolta in ricorso dalla società correntista volta a far valere il criterio della c.d. vicinanza della prova.
Ciò perché, se è vero da un lato che la ripartizione dell’onere della prova deve tenere conto anche del principio, riconducibile all’art. 24 Cost., per cui non è ammissibile rendere impossibile o troppo difficoltoso l’esercizio dell’agire in giudizio, è pur vero dall’altro che tale criterio non può essere però invocato ove ciascuna delle parti acquisisca la disponibilità della prova (documentale) si cui si dibatta (il che accade, almeno di regola, nel caso di stipula di contratti bancari). Per altro, precisa il Collegio, la mancata conservazione dello scritto trova rimedio nell’art. 2724 c.c., n. 3, che ammette la prova testimoniale ove lo stipulante abbia senza colpa perduto il documento che gli forniva la prova.
Il principio dell’irrinunciabilità della produzione del contratto non sarebbe eludibile, parrebbe, nemmeno in caso di mancata evasione della banca della richiesta ex art. 119 TUB avanzata ante causam. Infatti, a prescindere da ogni ulteriore considerazione quanto alla contestata esistenza dell’obbligo, da parte della banca, di ottemperare alla richiesta di ostensione di un documento che risaliva a più di dieci anni prima , ciò che rileva, nella presente sede, è che la ricorrente non abbia offerto, nel corso del procedimento, la prova di cui era onerata.
Ora, al lettore non saranno di certo sfuggite, tra le altre, Cass. Civ. n. 33321 del 21.12.2018, Cass. Civ. n. 30822 del 28.11.2018, Cass. Civ. n. 12845 del 23.05.2018, che già confermavano gli approdi che precedono ma che, forse, si soffermavano esplicitamente solo sulla produzione degli estratti conto. L’arresto in commento ha il pregio di chiarire definitivamente, se ve ne fosse bisogno, che ai fini della dimostrazione dell’assenza della causa debendi, l’attore deve altresì procedere alla produzione del contratto.
Cass., Sez. VI, Ord., 13 dicembre 2019, n. 33009
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